Per salvare la lettura profonda, Maryanne Wolf propone un progetto pedagogico nuovo. Carta e digitale insieme, per un cervello bi-alfabetizzato.
Dell’ultimo libro di Maryanne Wolf Lettore vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale (titolo originale: Reader, Come Home: The Reading Brain in a Digital World, 2018; tr. it. di Patrizia Villani, Milano, Vita e Pensiero, 2018) si è già detto e scritto molto. Il saggio costituisce un accorato appello in forma epistolare, argomentato con passione e ricco di riferimenti ai risultati di dieci anni di ricerca neuroscientifica nel campo della lettura. La Wolf, che dirige il Centro per la dislessia presso la UCLA Graduate School of Education and Information Studies, ci invita a riflettere sui pericoli che comporta, per i nostri processi cognitivi, l’immersione totale nell’ecosistema digitale. Sono a rischio l’empatia, l’immaginazione e il pensiero critico, ovvero quelle dimensioni che definiscono e caratterizzano la cosiddetta «lettura profonda». Le preoccupazioni della Wolf non sono molto diverse da quelle espresse da decine di ricercatori europei nella recente Dichiarazione di Stavanger.
Vogliamo qui concentrarci sulla pars construens del libro, nella quale si tenta di rispondere alla sfida del cambiamento digitale e si formula una proposta che è insieme pedagogica, filosofica e politica. Per la Wolf occorre che ci attrezziamo con un «cervello bi-alfabetizzato», ossia capace tanto di concentrarsi nei processi di lettura profonda, quanto di muoversi rapidamente da un contenuto interessante all’altro. In altri termini, un cervello capace di lavorare sia in digitale sia in analogico.
La formula del cervello bi-alfabetizzato è andata sviluppandosi nel mondo delle neuroscienze applicate alla lettura a partire dal 2014. Alla base di questa idea vi sono due postulati fondamentali.
Non siamo nati per leggere
Il primo postulato si riferisce al fatto che leggere non è un’attitudine naturale né un processo innato, ma un’invenzione culturale. Per leggere, facciamo funzionare il nostro cervello in un modo diverso rispetto a quello per cui è stato programmato geneticamente. «Non siamo nati per leggere», ci ricordava già la Wolf nel suo precedente libro tradotto in italiano, Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge (Milano, Vita e Pensiero, 2012). E ancora prima ce lo aveva spiegato, non senza scatenare qualche controversia, Stanislas Dehaene nel suo fondamentale studio Reading in the Brain. The New Science of How We Read (New York, Penguin, 2009).
Il secondo postulato è quello della «plasticità entro i limiti». È vero che il cervello è in grado di andare oltre le sue funzioni originali, costruendo nuove connessioni e nuovi percorsi, e dunque riciclando aspetti delle sue strutture di base (Dehaene parla appunto di neuronal recycling). Tuttavia, tale plasticità non può superare determinati limiti. Il cervello non è una tabula rasa, in grado di recepire ogni stimolo e di adattarsi a fare qualsiasi cosa. Esso si adatta entro i limiti della sua biologia.
In che senso parliamo dunque di cervello bi-alfabetizzato? Se il circuito cerebrale della lettura è malleabile, ossia influenzato da ciò che leggiamo, da come leggiamo e dal modo in cui siamo educati a leggere, allora proprio l’educazione diventa uno dei fattori fondamentali per modificare il comportamento del cervello che legge. E ciò vale – sottolinea la Wolf – fin dalla prima infanzia. L’obiettivo è creare lettori capaci di transitare con flessibilità da un codice all’altro (dall’analogico al digitale, e viceversa), sfruttando il meglio di entrambi. Questo «dovrebbe prevenire l’atrofia rilevata negli adulti quando i processi di lettura digitale si riversano nella lettura di testi stampati, eclissando i processi più lenti della lettura su carta» (p. 160). Il condizionale è d’obbligo, dal momento che la stessa Wolf parla di «ipotesi non dimostrata» (ibidem).
Educare alla lettura: prima la carta
La Wolf propone in sostanza di introdurre diverse forme di lettura, basate su testi a stampa e testi digitali, nel periodo compreso fra i cinque e i dieci anni di età. Prima dei cinque anni, i bambini dovrebbero essere tenuti il più possibile lontani dagli strumenti digitali. All’inizio il ruolo dei libri stampati deve prevalere, in modo da rafforzare le peculiari dimensioni spaziali e temporali della lettura:
Durante l’introduzione iniziale alla lettura su carta, vogliamo che i bambini imparino che leggere richiede tempo e restituisce pensieri che rimangono anche dopo che una storia è finita. […] Per tutto questo periodo dai cinque ai dieci anni, si tratta di instillare nei bambini la convinzione che, se si prendono il loro tempo, potranno sviluppare le proprie idee. (p. 161)
La questione del tempo è centrale. Nell’ecosistema digitale il cervello tende a subire un sovraccarico informativo. È stato stimato che in media un americano adulto deve processare ogni giorno 34 GB di informazioni, pari a circa 100mila parole (Roger E. Bohn, James Short, Measuring Consumer Information, in “International Journal of Communication”, 6, 2012, pp. 980–1000). A tale sovraccarico tendiamo a rispondere in tre modi: semplifichiamo; elaboriamo le informazioni in un tempo più rapido, leggendo “a raffiche”; seguiamo le priorità. L’esperienza della lettura profonda viene sacrificata in favore di comportamenti più consoni a questa esigenza di gestione del tempo. Ecco dunque lo skimming (lettura superficiale), lo skipping (salto di parti di testo) e il browsing (scorrimento veloce).
Non meno importante è il rapporto con la dimensione fisica della scrittura, del testo e quindi del supporto utilizzato per la lettura. Imparare a scrivere a mano è un modo per esplorare i propri ragionamenti senza fretta, per cui implica un miglioramento nella scrittura ma anche nel pensiero.
Vi è infine il tema dell’educazione alla programmazione. La scrittura di codice (il cosiddetto coding) dovrebbe essere una nuova forma di alfabetizzazione, accessibile per tutti. Mentre i bambini imparano a leggere e a pensare con il mezzo più idoneo, ossia la carta stampata, devono entrare in contatto con strumenti diversi, che vengono introdotti per imparare le abilità creative digitali: l’arte grafica e la programmazione del software. Perché programmare aiuta a organizzare i propri pensieri, proprio come la scrittura e la lettura.
Tempo, concentrazione e gusto per la bellezza
Fino ai dieci anni di età, carta e digitale devono avere pari spazio nel contesto educativo. Nessuno dei due mezzi deve prevalere sull’altro. Dopo il decimo anno il bambino dovrebbe avere imparato molto, grazie all’utilizzo di diversi strumenti ciascuno con un ruolo specifico. Solo a quel punto sarà pronto per leggere più testi scolastici su schermi digitali:
Il nostro obiettivo ultimo è lo sviluppo di un cervello davvero bi-alfabetizzato, capace di assegnare tempo e attenzione alle abilità di lettura profonda a prescindere dal mezzo utilizzato. Queste non solo forniscono antidoti efficaci agli effetti negativi della cultura digitale quali la dispersione dell’attenzione e il logoramento dell’empatia, ma completano anche in modo positivo le influenze digitali. (p. 165)
La Wolf sintetizza il suo progetto in una formula: passare dal tldl (troppo lungo da leggere) all’arcia/pS (ascolta, ricorda, connetti, inferisci, analizza / poi SALTA!). Non sappiamo se il modello educativo proposto dalla studiosa americana sia sufficiente a contenere le derive della lettura nell’ecosistema digitale. Certo è che la perdita della capacità di svolgere una lettura profonda di testi complessi costituirebbe un’involuzione culturale gravissima.
Le letture difficili, lo sappiamo, pongono una triplice sfida: 1) richiedono di dedicare tempo e attenzione, per decodificare i vari strati di significato del testo; 2) impongono di svolgere un’analisi complessa; 3) presuppongono la capacità di percepire la bellezza dietro la precisione e la raffinatezza della scrittura. La Wolf suggerisce che forse c’è un modo per imparare a vincere queste tre sfide, recuperando il tempo, la concentrazione e il gusto per la bellezza.
Paolo Costa